Angelo Costa
Bergerac (Francia)
PRIMA

Belinelli col massimo per un cestista, il titolo Nba. Adesso Vincenzo Nibali col massimo per un ciclista, il Tour de France. Roba da scatenare la twitter mania del premier Renzi e da far persino credere che due discipline in astinenza prolungata di vittorie in realtà non siano messe così male.
Benedetto Nibali, come del resto Belinelli: atleti così, persone così, servono a rilanciare l’immagine del povero sport italiano. In realtà, è da tempo che Vincenzino nostro sta tenendo su di peso il suo ambiente: dal 2010 a oggi, quando prende il via in una grande corsa a tappe, puntualmente finisce sul podio. Spesso sul gradino che conta: prima la Vuelta, poi il Giro, adesso il Tour. Nel ciclismo si chiama tripla corona, un po’ come fare il grande slam nel tennis conquistando i tornei che contano. Impresa riuscita a pochi nella storia: vedi alla voce fuoriclasse.
ALLA BELLEZZA delle cifre, figlia della sua meravigliosa continuità, Nibali abbina un altro merito: sta restituendo agli italiani il sottile gusto di passare i pomeriggi alla tv per seguire la corsa francese. Da quando pedala in giallo, anche le mamme e le nonne, i pensionati e i frequentatori dei bar si mettono in poltrona per sapere cosa farà quel ragazzo salito dal Sud a conquistare la storia: si spiega così l’ultimo miracolo televisivo, la moltiplicazione dell’audience.
Piace a tutti, Nibali. Piace tanto. Per quel suo modo di correre: mai calcolatore, sempre aggressivo. Sia al Tour o alla Sanremo, la classica a lui meno adatta, lui va all’attacco. Perchè corre sempre: lo vedi protagonista in primavera e in autunno, col gelo e il caldo torrido. Coraggio e gambe, ma anche testa e cuore: oltre che le corse, è la ricetta per conquistare la gente. Piace anche per il suo modo di essere: più vince, più è contento di restare Nibali. In testa al Tour dal secondo giorno, si è concesso solo il giallo della maglia che gli spetta, senza abbandonarsi a look ben più vistosi e pacchiani: l’essenzialità tipica di chi preferisce esser persona e non personaggio.
A questo Nibali, figlio di sani princìpi coltivati in famiglia e non più abbandonati, l’Italia deve adesso una delle massime imprese sportive. Una boccatona d’ossigeno nel momento in cui passioni ben più celebrate sono in depressione: con la Nazionale di calcio non ci si può certo buttare nelle fontane, con la Ferrari non si va più in piazza a festeggiare, con Valentino Rossi ci si scalda anche per un semplice podio. Nonostante questo, il Paese ha faticato parecchio per prendere la scia del campione che domani sfilerà in giallo a Parigi 16 anni dopo la buonanima Pantani: Nibali ha dovuto dominare sul pavè, sui Vosgi, sulle Alpi e infine sui Pirenei prima di avere il doveroso e giusto spazio anche nei telegiornali. Si è meritato il Tour mentre questo strano Paese non si meritava Nibali.
COMPLIMENTI, Vincenzo: per la corsa che sta vincendo, per ciò che rappresenta. Nel giorno del tripudio, si scateneranno tutti, vip veri e presunti, amici dell’ultim’ora e narratori pronti a inventarsi chissà cosa per raccontare questo signore in giallo. Adesso che finalmente viene riconosciuto come simbolo di un’Italia che ha anocra voglia di pedalare, gli pioveranno addosso complimenti ed elogi perfino esagerati. Ma lui l’ombrello l’ha già aperto, in perfetto stile Nibali: «Non mi sento una leggenda: voglio semplicemente far divertire e vincere, ma resterò una persona normale».