IL MONDO guarda con allarme al conflitto che dilania Gaza e Israele. Pochi riescono a considerare più drammatica la situazione che sta verificandosi nel cuore del Mediterraneo, dove una volta esisteva la Libia. Eppure le centinaia di vittime e l’indeterminatezza dei termini della crisi dovrebbero suscitare grandi preoccupazioni, soprattutto per l’Italia. Il 25 giugno scorso si sono tenute in Libia le prime elezioni parlamentari. Quanto libere e democratiche pochi riescono a dirlo. Dai risultati (caratterizzati da una scarsa affluenza alle urne), gli elementi laici risulterebbero vincitori, avendo ottenuto circa il 50 per cento dei seggi, mentre gli islamisti avrebbero ottenuto solo il 15 per cento. Il Parlamento eletto dovrebbe tenere la sua prima domani a Tobruk, invece che a Bengasi. Le notizie che giungono dalla Libia dicono che la seconda città del Paese è ormai completamente controllata dagli islamisti e, in particolare, da quelli legati all’estremismo del gruppo denominato Ansar al-Sharia. Perciò la riunione si terrà in ogni caso lontano da Bengasi. Ma con quale valore? È ovvio che se il Parlamento rappresentasse davvero il paese da questa riunione potrebbero uscire le coordinate istituzionali e politiche necessarie per mettere ordine nel caos libico. Ma perché ciò accada è necessario che il caos sia domato, ciò che invece non è. È impossibile oggi parlare della Libia come di un paese nel quale la libertà e la democrazia, invocate nel 2011 quando venne abbattuto il regime di Gheddafi, siano le regole rispettate dalla collettività. Piuttosto si deve parlare di un territorio nel quale il concetto di autorità statale è una nozione evanescente, superata da ciò che accade sul terreno.

QUANDO

Gheddafi venne eliminato, gli elementi che lo avevano combattuto si impadronirono degli armamenti dell’esercito. Armamenti abbondanti e moderni, che finirono nelle mani di una serie di gruppi senza disciplina né coordinamento. Dopo di allora, ogni tentativo di dare al Paese una nuova identità è fallito, soprattutto a causa dell’emergere delle divisioni più profonde che dominano il territorio: la divisione geopolitica fra Tripolitania, Cirenaica e aree desertiche, e la divisione religiosa tra gli islamici moderati e tendenzialmente secolaristi (qualcuno li definisce liberali) e i musulmani integralisti, pronti a combattere per affermare un sistema politico costruito sul modello dell’Egitto dei Fratelli Musulmani, se non anche del califfato islamico creato in Iraq. Da qualche mese, questo scontro si è fatto più aspro. Il generale in pensione Khalifa Haftar, di tendenze secolariste, appoggiato del nuovo regime egiziano e probabilmente dai servizi segreti di Paesi occidentali, ha cercato di raccogliere forze sufficienti per impadronirsi del potere.

LA SUA AZIONE

ha avuto punti critici nel violentissimo scontro tra le forse islamiste che hanno sede a Misurata, e le forze disposte ad appoggiare Haftar, muovendo dalla base di Zintan. Non risulta che sinora questo scontro abbia avuto esiti risolutivi, se non quello di mettere a fuoco un paio di depositi di carburante a Tripoli. Mentre risulta, al contrario, che le forze islamiste sarebbero riuscite (come il ministro Mogherini ha dichiarato ieri alla Camera) a prendere completo possesso di Bengasi. Le stesse forze che nel 2012 aggredirono e uccisero l’ambasciatore degli Stati Uniti, provocando un risentimento duraturo. Se la Libia sia ancora nelle condizioni di rinascere come Stato o se debba dividersi in due o tre entità separate non è possibile prevederlo. La guerra civile che sconvolge quelle terre ha radici così profonde da rendere impossibile ogni previsione in merito.
Tanto più che non è chiaro se gli islamisti libici agiscano nell’ambito di un ipotetico progetto regionale di islamizzazione di tutto il Medio Oriente, del quale si vedono più sintomi; oppure se la guerra civile sia il risultato dell’impossibilità di sradicare le tensioni locali. Un intervento occidentale, a questo punto, non avrebbe senso e recherebbe danno a quei vantaggi economici dei quali, secondo i media, l’Italia ancora dispone. Eppure è evidente che una situazione di quel genere non può essere lasciata a se stessa, poiché i rischi che essa si trasformi in un’epidemia nordafricana sono troppo numerosi.