Roma, 30 novembre 2010 - MARIO MONICELLI. Dici il suo nome, e vedi tutta la commedia all’italiana. Dici il suo nome, e vedi Vittorio Gassman che impara a ridere di se stesso, e del suo istrionismo, nei “Soliti ignoti”, vedi Mastroianni e vedi Totò che fa lezione di scasso sulla terrazza di un condominio, vedi Capannelle che, in mancanza d’altro, mangia una minestra dove avrebbe dovuto trovare un sacco di soldi. Dici Monicelli, e vedi le zingarate di “Amici miei”, i battibecchi delle donne di “Speriamo che sia femmina”, o il grammelot ciociaro-medievale di Brancaleone da Norcia e della sua armata. Per niente invincibile. Sembra impossibile che, a novantacinque anni, abbia avuto il coraggio per farla finita. Però ci pensi meglio, e ti rendi conto che era l’unico a poter avere quel coraggio. Non gli faceva paura la morte. Lo infastidiva, lo innervosiva vederci sempre meno, non poter fare le scale come prima. «Quando ci sarà la morte, non ci sarò io», mi aveva detto. Non voleva scontarla vivendo, la morte. Lo sentivi al telefono, e c’era come un buio, negli ultimi mesi, nella sua voce. Un buio che prima non c’era.

MARIO MONICELLI era sempre pronto alla conversazione, senza retorica né enfasi. Sempre schietto, come un suo conterraneo, Indro Montanelli, dal quale lo separavano una manciata di chilometri sulla via del mare – Monicelli di Viareggio, Montanelli di Fucecchio – e le idee politiche. Monicelli sempre, senza mai nasconderlo, di sinistra. Montanelli sempre, senza mai nasconderlo, di destra. Ma tutti e due accomunati dalla schiettezza, dalla lucidità dell’analisi. Raccontare l’Italia agli italiani: uno con le storie del cinema, l’altro con la Olivetti 22.

GIORNALISTA in cinema, Mario Monicelli era figlio di un giornalista vero e proprio. Suo padre era stato direttore del “Resto del Carlino”: era una firma e un drammaturgo di notevole valore, emarginato durante il fascismo perché in opposizione esplicita del regime. Un padre che aveva fondato anche due riviste di cinema. Mario Monicelli era cresciuto con la passione del cinema: nato a Viareggio nel 1915, aveva seguito la vita girovaga della famiglia: Roma, Viareggio, Milano, Pisa. Nel 1934, con la cinepresa di un amico, compie il primo tentativo di regia. Un anno dopo, con lo stesso amico e con Alberto Mondadori, realizza un cortometraggio, “I ragazzi della via Paal”, che viene presentato a Venezia e gli vale il premio per il miglior cortometraggio.

POI, L’APPRENDISTATO con i registi dell’epoca: Genina, Camerini, Gustav Machaty. Viene la guerra. Nel 1941 è arruolato in cavalleria. Nel ’42 sta per essere imbarcato per l’Africa, riesce per un soffio a evitare il trasferimento, getta l’uniforme l’8 settembre ’43, torna al primo amore – il cinema – nel ’44 collaborando con De Sica per “I bambini ci guardano”. E’ il dopoguerra: Monicelli conosce Stefano Vanzina, in arte Steno, papà dei due fratelli campioni del box office del cinema italiano. Con Steno, inizia una serie di commedie indimenticabili, fra le quali “Guardie e ladri” con Fabrizi e Totò. Monicelli continua a lavorare con Totò anche da solo: nel ’54 gira Totò e Carolina”, ed esplora in vario modo il genere commedia. E’ il 1958 quando, riutilizzando delle scenografie avanzate da “Le notti bianche” di Visconti, gira “I soliti ignoti”, un successo enorme di pubblico, e l’invenzione di un Gassman comico. L’anno dopo, il bis con “La grande guerra”, storico Leone d’oro (ex aequo con “Il generale Della Rovere” di Rossellini) e nomination all’Oscar come migliore film straniero. Nuova nomination nel 1963 con “I compagni”, interpretato da Marcello Mastroianni.

SONO gli anni Sessanta, quelli del film a episodi. Monicelli realizza “Boccaccio ’70” nel 1962 e “Capriccio all’italiana” nel 1968. Del 1966 è “L’armata Brancaleone”, un grandissimo successo di pubblico, un Gassman in stato di grazia. Sono anni di grandi successi intervallati da fisiologici flop. La sua commedia si fa sempre più nera, indagando piccoli vizi e meschinità di gruppi: da “Amici miei” che riporta il toscano nel cinema – e apre la strada a Benigni, Nuti, Benvenuti, Pieraccioni – a “Speriamo che sia femmina” (1985), da “Un borghese piccolo piccolo” a “Parenti serpenti” del 1992.

NEGLI ULTIMI ANNI, i riconoscimenti di prestigio non si contano: dal premio Pietro Bianchi del sindacato nazionale giornalisti cinematografici al Leone d’oro alla carriera nel 1991, dal Globo d’oro al Premio Maestri del cinema di Fiesole nel 1996. «Sì, mi danno un premio dopo l’altro», diceva. «Ma ripeto sempre che me li danno perché sono ancora vivo, mentre maestri molto più bravi di me mi hanno preceduto di là: io ringrazio per il premio, ma soprattutto guardo avanti». Viveva con ironia, sempre. «Spesso mi chiedono che cosa faccio per aiutare i giovani. Faccio il massimo, invecchio!». Monicelli era così. Andrebbero raccolte, un giorno, le sue battute. Sarebbero il suo film migliore.

SUL SUO LAVORO, lui che avrebbe meritato l’Oscar, fosse vissuto negli Stati Uniti, commentava con semplicità: «Avrei voluto essere Bunuel o Huston, ma mi è toccato essere Monicelli, e l’ho fatto meglio che ho potuto». Sui sentimenti, lui che non era affatto un sentimentale, diceva: «Ho sempre e solo desiderato stare insieme alle donne che ho amato. Ho avuto quattro convivenze e tre figlie. Penso che sono nate femmine perché così le ho volute: mi fa piacere avere intorno degli esseri umani senza peli, con la voce argentina di quando si è bambini». Era così. Semplice, diretto. E capace di vedere con distacco tutto. Soprattutto se stesso.