Toronto, 13 settembre 2011 - SABATO scorso la fila dei fan in coda per assistere alla premiére al Toronto International Film Festival di “Pearl Jam Twenty”, il documentario sui vent’anni della band di Seattle firmato dal regista di “Quasi famosi” Cameron Crowe, si allungava e cingeva il Princess of Wales Theatre come l’abbraccio di un’amante devoto. Insomma, Eddie Vedder come George Clooney o Brad Pitt sul red carpet di una 36a edizione molto sensibile al richiamo della musica da vedere date le presenze pure degli U2 di “From the sky down”, il documentario di Davis Guggenheim sul loro ritorno in quegli Hansa Studios di Berlino dove nel ’91 incisero “Achtung baby”, o di Neil Young con quel “Journeys” che venerdì prossimo il regista Jonathan Demme presenta pure al Milano Film Festival.

ANDATA infatti delusa la speranza di averli a Venezia, gli eroi di “Ten” hanno scelto la vetrina canadese per promuovere questo amarcord d’autore su un’epopea rock da 60 milioni di dischi venduti. «In cinque già ordinare una pizza è cosa ardua, figurarsi rimanere assieme vent’anni, ma la band rimane il collettore delle nostre sensazioni ed è per questo che sentiamo il tempo ancora dalla nostra parte» ammettono. “Pearl Jam Twenty”, o “PJ20” com’è scritto sui manifesti, arriva nelle sale il 20 settembre (in Italia lo proietteranno 34 cinema del circuito The Space) accompagnato dal doppio cd della colonna sonora, 29 pezzi per lo più live, e da un volume di 386 pagine curato dal giornalista musicale Jonathan Cohen in collaborazione con Mark Wilkerson, già biografo di Pete Townshend. In America il film verrà trasmesso dal canale televisivo Pbs il 21 ottobre, il relativo dvd sarà reperibile in tutto il mondo quattro giorni dopo. «Quella dei Pearl Jam è una grande storia rock, fatta di gioia, tragedia, e tanta voglia di farcela» spiega Crowe, con cui la band lavora dal ’92 quando partecipò alla commedia-omaggio al grunge di Seattle “Singles - L’amore è un gioco”. La gioia di cui parla il regista sta pure nell’incontro tra Vedder e Kurt Cobain nel retropalco degli Mtv Video Music Award ’92 quando, mettendo da parte mesi di rivalità, i due si ritrovarono abbracciati ad accennare un balletto cheek to cheek. «In scena Eric Clapton stava suonando la sua “Tears in heaven” e così ci lasciammo un po’ andare» ricorda il cantante. «Anzi, a un certo punto Kurt alza lo sguardo oltre la telecamera quasi a supplicare di non farlo sapere a nessuno».

LA TRAGEDIA è invece quella del 30 giugno 2000 al festival di Roskilde, in Danimarca, dove nove fan rimasero schiacciati tra la folla mentre il quintetto eseguiva “Daughter”. «Nella nostra vita c’è un prima e un dopo Roskilde» ammette Vedder. «Lasciammo la Danimarca con la convinzione che non avremmo mai più messo piede su un palco. Furono i padri e le madri di quei nove ragazzi morti in maniera tanto assurda a darci la forza di andare avanti; i nostri figli vi amavano, ci dissero, onorate il loro ricordo continuando a scrivere belle canzoni. E’ quanto abbiamo cercato di fare in tutti questi anni». Effettivamente nei concerti del quintetto la comunione della musica, il rapporto empatico coi fan, affiorano sul palco con forza dirompente.

I PEARL JAM accompagnano ora il lancio di “PJ20” con un tour transitato ieri e l’altra sera all’Air Canada Centre di Toronto per due repliche all’insegna del tutto esaurito. In repertorio non solo classici come “Alive”, “Porch” o “Just breathe”, ma anche cover tipo “Sleater” dei Kinney o “Crown of thorns” dei Mother Love Bone, col cantante Andrew Wood bruciato dalla droga a soli 24 anni. Straordinario il finale dello show di domenica, quando a riscrivere il torrenziale epilogo “Rockin’ in the free world” è salito in scena Neil Young in persona, per rovesciare lava rovente sui sedicimila in deliquio.