Cannes, 19 maggio 2012 - Il post “Gomorra” non era facile da gestire. Si sapeva che Garrone voleva continuare ad addentrarsi nel territorio del degrado sociale e culturale italiano. In un primo tempo il nuovo film prevedeva come soggetto il fotografo Corona o comunque un personaggio a lui ispirato.

Poi è arrivato da un episodio di cronaca l’ispirazione definitiva. «Cercavo un’idea all’altezza, che avesse la forza di “Gomorra”, che fosse altrettanto dirompente poi, senza rendermene conto ho ripiegato su una storia semplice, piccola, il racconto di un episodio realmente accaduto, che però mi ha permesso di esercitare la mia identità di sguardo. Un uomo comune che desidera quello che tutti desiderano, la fama, il denaro facile e che per raggiungerli perde la capacità di ragionare, e inizia un viaggio nella follia. La sua è una via crucis verso quell’eldorado che è il successo televisivo sintetizzato dalla partecipazione al Grande Fratello».

Garrone minimizza ogni possibile intento di affresco sociale. E’ nel suo stile l’understatement più completo. «Conosco bene il pensiero di Pasolini sulla televisione ma non ho mai avuto in mente né metafore né richiami all’impegno. Se poi il pubblico li vede io posso essere anche felice ma a me interessava mostrare l’aspetto illusorio del sogno, volevo un racconto onirico, al limite astratto che partisse insomma dalla realtà per sconfinare nella perdita di sé, sancita dalla risata finale. Insieme agli sceneggiatori (Braucci, Chiti, Gaudioso) abbiamo visto in Luciano (il pescivendolo protagonista) un Pinocchio dei tempi moderni per il candore infantile ed è per questo che ho girato il film come fosse un racconto fiabesco pur facendo attenzione a non cadere nella stravaganza».

Grazie alla straordinaria presenza di architetture opposte, reali come i fatiscenti palazzi settecenteschi e irreali come gli outlet e gli acquapark siamo in una sorta di realismo magico: non a caso Garrone ha tratto un film da Bontempelli. «Per il personaggio di Luciano ho subito pensato a Aniello Arena; l’avevo visto con mio padre, che era critico teatrale, in uno spettacolo della compagnia di detenuti Fortezza e quando ho distribuito i ruoli ho capito che avevo bisogno di lui, per me una sorta di straordinaria sintesi tra Pulcinella e De Niro».