Firenze, 6 ottobre 2010 - In Italia sono conosciuti per la versione di Night in White Satin che i Nomadi trasformarono in Ho difeso il mio amore. È uno dei gruppi degli anni d'oro del rock che continua imperterrito a suonare, con un successo straordinario nella loro Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Recentemente l'Universal ha ristampato i primi album dei Moody Blues, ma di uno di loro, Ray Thomas, stanno per uscire altre ristampe. E' l'etichetta inglese Esoteric (distribuita in Italia da Audioglobe) che ha preparato un set con gli album che Thomas, flautista, sassofonista e cantante, incise negli anni '70 From Mighty Oaks e Hopes, Wishes and Dreams. Con il musicista, che abbiamo incontrato durante una breve vacanza in Italia, dove ha registrato una puntata de 'Il Popolo del Blues' (che andrà su Popolare Network) abbiamo parlato di questa riedizione ma anche dei Moody Blues.

Qual è la caratteristica che le piace ricordare dei suoi album di allora?
«Il fatto che uno di essi, From Mighty Oaks, fu inciso in due versioni. Una di esse per essere ascoltato in quadrifonia, quella che in un primo momento doveva essere l'evoluzione della stereofonia negli anni '70. Un sistema che non ebbe il successo sperato, perché gli apparecchi avevano costi piuttosto alti. Però le garantisco che ascoltare un disco con quattro altoparlanti attorno è una bellissima esperienza».
 

E come è stato realizzato in questa nuova edizione?
«E' stato adattato nel formato '5.1 Surround Sound' in un Dvd, un'eventualità che ha permesso anche l'inclusione di un filmato promozionale fatto allora e che non avevo più rivisto. Ma in uno dei Cd c’è anche un’altra curiosità,non solo per gli ascoltatori, ma anche per me. Si tratta di un’intervista che mi fece uno dei componenti dei Moody Blues, il tastierista Mike Pinder,sui miei dischi».

Inevitabilmente non posso non chiederle del gruppo che l’ha vista protagonista per tanti anni. Innanzitutto lei è flautista. Come pensaste all’introduzione del flauto in un gruppo rock?
«E’ stato molto più semplice di quanto non si pensi. Amavamo molto lavorare con atmosfere orchestrali che venivano evidenziate dal mellotron, quindi il flauto era molto adatto».

Il vostro disco d’esordio, Days of future passed del 1967, vede la presenza di un’orchestra…
«Si, ma in studio andammo da soli, preparando i nostri brani in dieci giorni. L’orchestra, diretta da Peter Knight, lavorò a parte e l’album presentava un’alternanza di canzoni e pezzi orchestrali. Questo successe perché la Decca voleva dimostrare il risultato delle proprie attrezzature di studio che allora erano all’avanguardia. Alla fine il successo però fu dei Moody Blues».

E andaste alla ricerca dell’'accordo perduto', con il secondo album In search of the lost chord. Cos’era per voi l’accordo perduto?
«Era ovviamente una figura mitologica. Un qualcosa con cui dovevamo avere a che fare se volevamo ripetere i consensi avuti con il primo album. Lavorammo molto per fare qualcosa di diverso sia un questo caso, ma anche per i dischi successivi».

L’America fu determinante per il vostro successo, come mai?
«Innanzitutto ci investimmo molto, andando più volte in tour negli Usa. Poi fummo fortunati perché le radio in Fm trasmettevano la nostra musica in continuazione. Rappresentavamo qualcosa di diverso dato che i nostri dischi potevano essere ascoltati senza interruzione, tanto che i vinili non avevano il solco di demarcazione tra un brano e l’altro».