Roma, 12 agosto 2013 - Correva l’anno 1983. Seconda Guerra fredda, per un fraintendimento Usa-Urss il mondo va vicinissimo a una guerra nucleare, un grande soffio silenzioso che avrebbe portato la Terra all’ultimo respiro. Nasce il Craxi I, primo governo della Repubblica a guida socialista, il filosofo Vattimo elabora il “Pensiero debole”, in tv arrivano i Puffi, Canale 5 manda il telefilm “Uccelli di rovo” (e Italia 1 passa alla Fininvest di Berlusconi per 35 miliardi di lire); Raidue compra in America il serial-cult “Saranno famosi”, Antonio Ricci vara “Drive In”. E due ragazzini strapazzano l’edonismo reaganiano anni Ottanta con un motivetto orecchiabile e un testo serissimo che in anni diversi si sarebbe perfino detto impegnato. Un ritornello che s’insinua nel cervello e lì nidifica per non uscirne mai più. Titolo: “Vamos a la playa”. Autori: Stefano Righi e Carmelo La Bionda. Cantanti: Michael e Johnson Righeira, ovvero Stefano Righi e Stefano Rota, torinesi, classe 1960, fratelli per affinità - «Un duo senza sapere di esserlo» - e non di sangue.

Stefano Righi sono passati trent’anni dalla nascita dell’archetipo del tormentone. Lo Zingarelli lo inserì allora nel dizionario. Che effetto fa?
«Intanto mi chiedo perché, cinque anni fa era il 25° anniversario e nessuno se n’è accorto, ora sarà la cifra tonda che resta in testa, mah...».

Insomma, la sensazione.
«Stupore. Incredulità. Ci ripetiamo ossessivamente “Chi l’avrebbe mai detto?”».

Nessuno l’avrebbe mai detto?
«Ma figurarsi. Avevamo vent’anni. Non sapevamo nemmeno cantare. Io mi ero messo in testa che da grande volevo fare dischi e facevo le prove con gli amici».

E a un tratto è nata “Vamos a la playa”. Com’è accaduto?
«So che è nata in una cantina dove strimpellavamo la sera, in un gelido inverno torinese, la cantina puzzava di muffa e alla notte tornavamo a casa puzzolenti di muffa pure noi».

Ma che cosa avevate in testa?
«Una canzone da spiaggia, ritmo facile, però non scema, con un’idea e l’idea allora era la minaccia nucleare, ma non è che io ci pensassi poi tanto, si vede che l’avevo dentro, ma in modo del tutto inconscio».

Ritmo dance e testo da day after.
«Sì, ma volendo fare una canzone da spiaggia, un po’ come quelle americane anni ’60, è anche un pezzo ironicamente ottimista: e vabbé scoppia la bomba atomica ma a noi ci basterà ritrovare la stessa spiaggia, vuol dire che ci abbronzeremo di più sotto il vento radioattivo e avremo lo stesso mare sempre azzurro, pazienza se sterilizzato di ogni forma di vita, almeno non sentiremo la puzza di pesce...».

Un manifesto pacifista, anti-nucleare...
«Questo hanno detto gli altri, tutte analisi a posteriori, ma ripeto, è stata solo una coincidenza di fattori che ha prodotto una deflagrazione inimmaginabile».

Perché in spagnolo?
«Avevo in testa “Cuando calienta el sol” e mi pareva che cantarlo in inglese fosse troppo conformista. In italiano non credo avrebbe funzionato».

Dopo un successo simile l’opera seconda è uno psicodramma per un autore?
«Ma no... dopo abbiamo fatto “No tengo dinero” e “L’estate sta finendo” di cui peraltro, se proprio vogliamo festeggiare, è il 28° anniversario. Sono state altrettanti successi».

“Vamos a la playa” vi ha fatto diventare ricchi?
«Ricchi no, ho comprato casa da poco e ho un mutuo decennale davanti, però ci ha fatto guadagnare bene, questo sì. Il fatto è che magari allora non si pensava all’investimento, io ho speso in cose un po’ futili, d’altra parte avevamo vent’anni ed eravamo in naja».

Servizio militare?
«Già. La cosa buffa era che tutti cantavano sulla spiaggia “Vamos a la playa” e noi eravamo chiusi in una caserma della pianura novarese. Senza renderci conto di niente».

E adesso invece?
«Non può che essere un piacere immenso rendersi conto di aver inciso nella musica, nel costume e, lo dico senza ipocrisia, anche nella cultura di un’epoca».

Nostalgia?
«No, mai girato troppo indietro, tendenzialmente guardo avanti».

E davanti cosa c’è?
«Un progetto secondo me bellissimo: “Italiani”, a settembre-ottobre uscirà il disco. Più che altro è però uno spettacolo teatrale che abbiamo già fatto a Torino, alla reggia di Venaria e al Parco Valentino con grandissimo interesse e stiamo lavorando per farlo diventare un tour nei teatri».

Italiani: quali?
«Guardi la mia genesi musicale non sta certo nella musica italiana (nei Kraftwerk, piuttosto). Ma a ficcarci la testa dentro si scopre un patrimonio ricchissimo e meraviglioso. C’è tutto quello che ci piace, a me dico, e ai miei due compagni d’avventura che sono Gianluigi Carlone della Banda Osiris e il trobettista jazz Giorgio Li Calzi».

Che cosa c’è dentro?
«Ciampi, Battisti, De Andrè, ma anche il mitico Edoardo Vianello, Toto Cutugno, Alan Sorrenti di “Figli delle stelle” ve la ricordate? Fino a una canzone a me sconosciuta ma straordinaria di Gino Paoli, “A Milano non crescono i fiori”. Mi è piaciuto così tanto questo viaggio che immagino già un “Italiani capitolo due”. È un bel progetto».

Annalisa Siani