Roma, 4 aprile 2014 - Il grunge è morto, viva il grunge. Era l’8 aprile di venti anni fa quando nella serra di una casa di Seattle, in riva al Lago Washington, un elettricista trovò il corpo senza vita di quello che per la bibbia musicale Rolling Stones è stato il miglior artista degli anni ‘90.

Tre giorni prima, il 5 aprile 1994, Kurt Cobain, 27 anni, si era imbottito di eroina e di Valium prima di spararsi in testa con un fucile da caccia calibro 20. Accanto al corpo, una scatola contenente droga, un cucchiaio, aghi, sigarette e un paio di occhiali da sole, così come hanno rivelato alcune immagini scattate dopo il ritrovamento del corpo e rese note alcuni giorni fa. Poco sangue, quasi nulla, e una lettera indirizzata alla moglie Courtney Love e alla figlia Frances Bean.

Il leader dei Nirvana, da molti considerato il vero padre del grunge, è morto come aveva vissuto, stordito dai farmaci e dalla droga, imprigionato - le parole sono le sue - nella paura di vivere e “avverso al genere umano”, a tal punto da non avere più “nessuna emozione”. “It’s better to burn out then to fade away (E’ meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente)”, scrive Cobain nel suo commiato, citando Neil Young (che oggi dice: “Se avessi avuto la possibilità di parlare con lui gli avrei detto di mollare tutto, di fare altre cose, di allontanarsi da quel mondo”).

L’inizio - letterale - della sua fine ha una data ben precisa. Due mesi prima del suicidio, il 3 marzo, in una suite dell’hotel Excelsior in via Veneto a Roma, Cobain andò in overdose. Con lui c’erano la moglie e la figlia, nella capitale per trascorrere qualche giorno di relax dopo l’ultimo concerto del tour europeo dei Nirvana, a Monaco. Già in quella occasione molti parlarono di tentato suicidio. Ricoverato al Policlinico Umberto I, Cobain fu poi trasferito all’American Hospital, prima di tornare negli States.

Le settimane successive furono un lungo preludio alla fine annunciata. Depressione, droga, molta droga, tranquillanti, e nessuna voglia di vedere la luce del sole. L’uomo simbolo del grunge aveva semplicemente scelto di morire. Da solo. Un altro nome nella macabra lista del ‘Club 27’, che allora contava, fra gli altri, anche Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Brian Jones, tutti geni della musica morti tragicamente a 27 anni. A loro, il 23 luglio 2011, si è unita anche Amy Winehouse.

LA MOSTRA A PARIGI - Venti anni dopo il suicidio di Kurt Cobain, una galleria parigina espone “The last shooting”, l’inquietante scatto dell’ultima seduta fotografica della rock star che gioca con un’arma da fuoco davanti all’obiettivo di Youri Lenquette.
Scattate una sera del febbraio 1994, le foto, una ventina, sono esposte per la prima volta nella loro integralità fino al 21 giugno all’Addict Galerie, nel centro della capitale francese, e mostrano un Kurt Cobain con un pullover liso e dei jeans larghi, stanco e sfatto, con un’arma puntata contro l’obiettivo.

Dopo il suicidio di Kurt Cobain, il fotografo chiese alla sua agenzia di non mettere in vendita le foto più inquietanti e rifiutò alcune offerte economicamente molto vantaggiose. Solo adesso, per i 20 anni dalla morte, quegli scatti arrivano al pubblico.