Chiara Di Clemente

SONO NATO in una città di morti, il primo calcio che ho preso è stato quando ho toccato terra. Finisci come un cane che è stato picchiato troppo, passi metà della tua vita a cercare un rifugio: sono nato negli Stati Uniti. La musica è quella dell’ inno da stadio, muscoli ed energia. Anche il ritornello è uno slogan, facilissimo, immediato. Ma sono le parole con cui inizia la storia, e i versi successivi ad aver fatto - oggi trent’anni fa - la differenza. Ad aver trasformato “Born in the Usa” di Bruce Springsteen in un miracolo politico.

“BORN in the Usa” è l’album di Springsteen che nella storia del rocker americano ha venduto di più: 15 milioni di copie negli Usa, 30 nel mondo. Il disco uscì il 4 giugno 1984: arrivava dopo le cupezze di “Nebraska” (1982) e un periodo di depressione del giovane Boss, comunque il brano “Born in the Usa” era proprio a “Nebraska” che in realtà (scartato per poi non essere utilizzato in un film di Paul Schrader) apparteneva in partenza. John Landau lo storico produttore di Bruce sapeva che le canzoni del nuovo album erano ognuna una hit potenziale - caso che appartiene ai soli capolavori del pop - ciononostante chiese a Springsteen un singolo ancor più “esplosivo” e fu così che nacque “Dancing in the Dark”, tutta tastiere di Roy Bittan e indimenticabile video con Courteney Cox ragazzina chiamata a ballare sul palco da uno smagliante sexy Springsteen superstar. Con “Dancing in the Dark” ad aver fatto da apripista al disco, il successivo impatto del brano “Born in the Usa” acquistò una potenza ancor più netta, precisa, drammatica.

ATTACCO di batteria che ricorda i colpi di fucile, testo duro, diretto, che cita i veterani del Vietnam, il loro dramma umano e sociale: il Boss riusciva a fondere pacifismo a orgoglio nazionale, amore per la bandiera e odio per la guerra, voglia di libertà a giustizia sociale. Grazie a lui la sinistra americana, dieci anni dopo le manifestazioni anti-Vietnam, riscopriva il valore di un patriottismo democratico, non imperialista. Di contro, da manuale, fu la gaffe su “Born in the Usa” di Ronald Reagan. Il presidente ex attore nell’84 correva per la rielezione; in trasferta nel New Jersey, la patria del Boss, tentò di arruolare il rocker alla sua causa: «Il futuro dell’America sta nelle migliaia di sogni nei vostri cuori, nel messaggio di speranza delle canzoni di un uomo che tanti giovani ammirano, nato qui, Bruce Springsteen». Due giorni dopo, in concerto a Pittsburgh, capitale dell’acciaio in crisi, Springsteen gli rispose: «Il presidente ha fatto il mio nome. Ora mi chiedo oggi quale sia, tra i miei album, il suo preferito. Non credo sia “Nebraska’’», e Bruce intona “Johnny 99”, l’uomo rimasto senza lavoro dopo la chiusura della sua fabbrica di auto, che torna a casa ubriaco, fatto di psicofarmaci e spara al portiere di notte.

TRENT’ANNI dopo, in concerto, “Born in the Usa” Bruce ha preso a cantarla spesso alla Dylan. Niente più fanfare rock, molta rabbia dolente: giù nell’ombra del penitenziario / fuori tra i bagliori della raffineria / sono dieci anni che brucio per la strada. «Nowhere to run ain’ t got nowhere to go», non ho nessun posto dove correre, non ho nessun posto dove andare. Sono nato negli Usa.