Firenze, 25 maggio 2012 - Salutando Edoardo Mangiarotti, andato a tirare di scherma con San Pietro lassù in Paradiso, teneramente ci congediamo dall’uomo che, meglio di chiunque altro, ha rappresentato, in Italia, i valori della Olimpiade.

Non solo per il record delle medaglie, ben 13, conquistate tra spada e fioretto nel lungo periodo che va dai Giochi di Berlino del 1936 a quelli di Roma del 1960. E nemmeno per il doppio onore di essere stato alfiere della nazionale azzurra in due occasioni, alla cerimonia inaugurale di Melbourne nel 1956 e ancora nell’Urbe quattro anni più tardi.
 

C’è di più. Edoardo Mangiarotti, fino all’ultimo giorno dei suoi 93 anni di vita, è stato un simbolo. Di lealtà sportiva e di cultura messa al servizio dell’agonismo. Certamente la scherma, con le sue atmosfere rarefatte e il suo ambiente in apparenza sofisticato (dico ‘in apparenza’, perché in realtà i protagonisti delle pedane spesso sono vulcani, si pensi al presente, alla Vezzali o a Montano) non è mai stata e mai sarà popolare come il calcio o la Formula Uno: eppure, Mangiarotti ha attraversato le generazioni. In materia di Olimpiade, lui è stato quello che Coppi e Bartali furono in bicicletta.

L’ho conosciuto, Edoardo, nella veste di presidente dei Veterani dello Sport. Era un mito e probabilmente faceva finta di non saperlo: cioè non ostentava il suo palmares (delle tredici medaglie ai Giochi, sei erano d’oro, ma al conto occorre aggiungere anche la bellezza di tredici titoli mondiali, per la bellezza di ventisei podi complessivi) e invece parlava volentieri del presente, degli eredi, naturalmente della Olimpiade.
 

Ecco, con Mangiarotti se ne va un po’ di storia olimpica. Suo padre, Giuseppe, aveva partecipato ai Giochi di Londra del 1908. Sua figlia Carola era ai Giochi di Mosca del 1980. E nessun azzurro ha vinto tanto quanto lui, alla Olimpiade. Sì, penso che per San Pietro non sarà un duello facile, quello appena cominciato Lassù…