Londra, 29 agosto 2012 - Voglio essere sincero: mi piacerebbe se chi legge queste mie righe pensasse, vedendo in televisione le Paralimpiadi, semplicemente pensasse: ah, ma che bella competizione sportiva!
Mi spiego.
 

Io trovo stucchevoli, senza mancar di rispetto a nessuno, le disquisizioni semantiche. Non mi interessano le definizioni! Potete parlare di disabili, potete parlare di portatori di handicap, eccetera. Siete, siamo liberi di usare il linguaggio che preferite e che preferiamo. A un patto: a patto di non nascondere l’ammirazione, sì, l’ammirazione, per chi sceglie di mettersi in gioco, anzi in gara, qualunque sia la sua condizione di partenza.
 

Vedete, se ci fossero uomini capaci di volare uno come Usain Bolt sembrerebbe un disabile, un portatore di handicap. Ci avete mai pensato? Tutto è relativo, nelle nostre esistenze. In fin dei conti, ognuno di noi deve trovare in se stesso le motivazioni per rendere migliore la vita. La propria e quella degli altri.
 

Chi partecipa alla Paralimpiade, compreso me, è uno sportivo praticante. Andiamo a Londra per competere. Saranno gare magnifiche, spettacolari, combattute. Noi paralimpici non inseguiamo la comprensione: inseguiamo la vittoria!
 

E io ho l’impressione che i londinesi, sorretti da una grande cultura dell’agonismo che si fa vita, questo lo abbiano capito perfettamente. Per quanto mi riguarda, arriverò nella capitale del Regno Unito a fine settimana. Sto completando la preparazione per le prove di handbike. La cronometro. La sfida in linea. La staffetta. Ah, a scanso di equivoci: se tornassi a casa senza una medaglia, sarei molto arrabbiato con me stesso!