Ferrara, 23 ottobre 2012 - «IL DOPING non è una mia invenzione: mi tengo informato, ma non sono un esperto di chimica. Io consiglio metodi di allenamento, strategie alimentari, calendari di gare. Non uso farmaci». Michele Ferrari, il medico ferrarese che ha legato la fama ai trionfi di Lance Armstrong, rompe il silenzio e difende se stesso, oltre al campione americano.

In dossier, verbali d’interrogatorio, intercettazione lei viene associato ad atleti che del doping hanno fatto largo uso.
«Lo so. Nel report della Usada il mio nome compare 480 volte, quello di Armstrong solo 200. Mi attribuiscono nefandezze e capacità solforose, come l’invenzione di una mistura magica di olio d’oliva e testosterone, da mettere sotto la lingua. O suggerire che l’Epo per endovenosa si elimina più rapidamente che iniettandolo sottocute».
Tutto falso?
«Bullshit, direbbe Lance. Eviterei la traduzione».
Armstrong è stato cancellato dal ciclismo. Quali sono oggi i vostri rapporti?
«Ci sentiamo spesso, via mail. Non abbiamo più collaborazioni sportive ma è un amico».
Su internet lei parla di ‘cospiracy’, di cospirazione.
«In tutto il dossier Usada ci sono soprattutto sospetti. Le accuse rimbalzate in Italia e che permeano le inchieste giudiziarie sono alimentate da sospetti. Prove circostanziate non esistono».
E cosa c’è allora?
«Motivi economici, ragioni politiche, vecchi rancori».
Si spieghi.
«Armstrong è stato un grande campione, anche se pensi che non è stato il più forte che io abbia allenato. Ha innescato un enorme business. Però oscurava tanti, dalle squadre che non erano la sua a qualche compagno, sino all’Uci. Ha oscurato chi ha vinto i Tour prima di lui, tutti a pane e acqua ovvio; si è attirato odi in certa stampa».
Anche di lei si parla come di un mito controverso, oltre che di uno straordinario allenatore. Armstrong le avrebbe versato un milione di dollari per le consulenze, e un suo programma d’allenamento costa migliaia di euro.
«Lance ha speso molto di più in avvocati. Il resto è il mio mestiere; da vent’anni non faccio più il medico di una squadra, non vado neppure alle corse».
E sul doping è innocente.
«Non sono mai stato trovato con la pistola fumante in mano. O bastano sospetti e perquisizioni, più o meno casuali, a sancire la colpevolezza?».
Sembra la frase del ’94 che suscitò enorme caos: ‘il doping è quello che risulta dai controlli’. Lo pensa ancora?
«Oggi direi anche che è doveroso fissare paletti, e garantire controlli uguali per tutti: siamo certi che sia così?».
La lotta al doping ha fatto passi avanti.
«Non ha risolto i problemi. I sospetti aumentano, gli atleti continuano a usare farmaci proibiti, rischiano l’illegalità e la salute. Tutto ciò non si risolve col proibizionismo o alimentando false leggende».
Non è una leggenda la nocività dell’Epo.
«E’ illecita nello sport, non è veleno. E’ prescritta in qualche terapia anticancro, o sbaglio?»
Il ciclista Bertagnolli dice in un interrogatorio di averne discusso con lei i metodi di assunzione.
«E’ quel che dice lui. Attenda, la verità è molto diversa».
Qual è la sua verità?
«Che è comodo individuare uno o due ‘re del male’, ovviamente a posteriori, e tacere altri aspetti. Ad esempio che nel ciclismo, diversamente dal calcio, l’atleta non è un bene della squadra: viene spremuto, deve vincere subito a prescindere dalla durata e dalla salute. E’ chiaro che c’è chi cerca scorciatoie; spesso si tratta di seconde schiere che per colmare il gap che un’ingiustizia genetica ha inflitto loro, si buttano sul doping».
Non era una seconda schiera Alex Schwazer.
«Nella sua vicenda non c’entro, abbiamo effettuato test di allenamento, di doping non s’è minimamente accennato».
Capita di accennare?
«E’ un argomento di conversazione. Ma quando si è rivolto a me qualche atleta dedito al doping, io ho proposto alternative: invece dell’Epo sintetica, training in ipossia in altitudine. Al posto di testosterone e anabolizzanti, cibi che hanno effetti migliori. Quando qualcuno insisteva, io gli dicevo ‘butta via tutto’. Quelli lì, non li ho più visti nel mio camper. Bertagnoli compreso».